giovedì 19 ottobre 2017

New York Basketball Stories 2.0: la dinastia dei Marbury



Donald Marbury a Coney Island lo chiamavano “The Major”, il Sindaco, perché aveva personalità e godeva di rispetto negli anni della gioventù. Era un uomo “cool”. I migliori giocatori di Coney Island uscivano sempre da casa sua. Tutti i figli di Donald Marbury arrivavano a giocare in college di prima divisione, prima o poi, ma nessuno di loro era abbastanza disciplinato, forte nella testa o abbastanza bravo per trasformare questo talento in qualcosa di produttivo. Finché non arrivò Stephon.

Il più anziano dei figli di Donald Marbury è Eric, detto Spoon, cucchiaio, o Sky Dog, grande stella di Lincoln, un giocatore per il quale tutti impazzivano, idolo del fratellino Steph. Venne reclutato dall’Università della Georgia, da coach Hugh Durham, e giocava accanto a Dominique Wilkins, la fantastica star degli Atlanta Hawks degli anni ’80-’90. Eric non era una stella, ma un buon giocatore difficile da gestire. Voleva il quintetto, voleva minuti, voleva tiri, voleva tutto. Georgia raggiunse le Final Four del NIT, il torneo di consolazione ma soprattutto a quei tempi molto rispettato e di alto livello. Eric giocò la miglior partita della sua carriera ma era così arrabbiato con Coach Durham che sul possesso di palla decisivo commise – dicono volontariamente – infrazione di passi. Salì in sospensione e tornò giù, palla in mano. Forse è solo fantasia, forse c’è esagerazione in questo racconto. Ma Eric lasciò la squadra, non si laureò, fu tagliato al camp estivo dei San Diego Clippers del 1982, e tornò a Coney Island a fare il muratore.
Poi toccò a Don Marbury, detto Sky. Portò Lincoln al titolo ma aveva pessimi voti, non si era mai preoccupato della scuola e così i college di prima divisione si tennero alla larga da lui. Trascorse due anni in due diversi junior college e finalmente poté andare a Texas A&M dove diventò il capocannoniere della Southwest Conference. Segnò 50 punti in una partita, era un realizzatore, ma non si avvicinò mai alla NBA. Andò nello Utah a laurearsi e al ritorno a Coney Island andò a fare il maestro in una scuola elementare.
I Marbury sapevano giocare ma non avevano testa, erano come tutti i grandi giocatori di Coney: ricchi di talento, con un gran fisico, ma sempre con un motivo, una scusa, per non sfruttare davvero il proprio potenziale. Quindi arrivò Norman Marbury, detto Jou Jou. Il primo giocatore a venire inserito nei quintetti ideali delle scuole pubbliche di New York per tre stagioni consecutive. Veloce, forte fisicamente, duro e con un ottimo tiro. Ma neppure lui aveva buoni voti il che costrinse Tennessee a ritirare la promessa di una borsa di studio. Jou Jou finì in Texas e nello Utah in un junior college di modesto cabotaggio e successivamente ebbe una decente carriera in leghe sperdute, soprattutto in Indonesia.
Poi però arrivò Steph: programmato per fare il giocatore fin da quando aveva tre anni, a sei palleggiava con tutte e due le mani, poi diventò la grande attrazione degli intervalli delle partite di Lincoln quando andava in campo e intratteneva la folla con i suoi diabolici palleggi. Segnò 41 punti in una partita delle leghe cattoliche ed ebbe il primo articolo sul “Daily News”. Quando cominciò a frequentare Lincoln, Coach Hartstein lo schierò in quintetto fin dal primo giorno. Per quattro anni Marbury ha dominato la PSAL (Public Schools Athletic League), la lega delle scuole pubbliche di New York. Infine ha giocato un anno a Georgia Tech sotto la guida di Bobby Cremins, allenatore newyorkese che reclutava forte nella sua area di provenienza, e poi è approdato trionfalmente nella NBA, con il numero 4 dei draft del 1996, sconfiggendo la tradizione, la storia di Coney Island e di conseguenza della sua famiglia.
Steph è stato sempre diverso dai fratelli: loro speravano di andare nella NBA e contavano sul talento, Steph voleva andare nella NBA ed era disposto ai sacrifici necessari per riuscirci. Si è allenato di più, ha ascoltato di più gli allenatori, forse ha anche imparato da loro a non commettere i loro stessi errori. Si è sempre impegnato a scuola per essere sicuro di poter andare in un college importante e di giocare ad alto livello.
Nei draft del 1996 fu scelto da Milwaukee e subito trasferito ai Minnesota Timberwolves dove per più di due anni ha giocato accanto a Kevin Garnett. Ma c’è sempre stato un po’ di Marbury anche in Steph: nel 1999 pretese di essere ceduto, contando di tornare a New York. Invece finì nel New Jersey ai Nets dove non ha mai legato con l’ambiente pur raggiungendo l’All-Star Game quindi lo status di stella. I Nets lo cedettero ai Phoenix Suns in cambio di Jason Kidd. In Arizona, trovò la maturità come giocatore, uno dei più forti al mondo nel suo ruolo di point-man. Forte fisicamente, esplosivo, primo passo immarcabile, veloce, tiro da fuori letale, istinto per il passaggio. Era arrivato a Phoenix individualista, viziato, insopportabile. Se ne andò da leader. E coronò il sogno di giocare nei Knicks. Ma come dice un proverbio: quando Dio vuole punire qualcuno, esaudisce i suoi desideri.
Marbury arrivò ai Knicks nel momento sbagliato. Erano un’organizzazione allo sbando, vittima di guerre interne, con un leader sbagliato come Isiah Thomas, prima presidente e poi anche allenatore. Fu lui a prendere Marbury e fu lui a rompere con Marbury. E forse anche Steph, coronato il sogno, ebbe un calo di motivazioni, un calo atletico, di sicuro New York portò fuori il peggio del suo carattere. Fu coinvolto in tante controversie, messo fuori squadra, sbugiardato, amato e poi fischiato. Durante una partita contro Phoenix, il padre Donald ebbe un malore. Arrivato all’ospedale fu dichiarato morto. Non c’è tanto che Marbury possa ricordare di buono della sua esperienza ai Knicks. Avrebbe poi fatto altre stagioni nella NBA prima di scappare di fatto dagli Stati Uniti e trovare una nuova dimensione, da giocatore e businessman in Cina, dove ha anche vinto, è stato amato più di quanto lo abbia amato New York.
L’esempio di Steph resta un esempio positivo ma non ha toccato troppo Zack Marbury, il fratellino, anche lui stella di Lincoln, ma molto più simile ad Eric, Don, Norman che a Stephon. Zack non ha curato i voti e il suo primo anno di college l’ha trascorso lontano dai campi. Era a Rhode Island: con i voti giusti avrebbe giocato accanto a Lamar Odom almeno un anno ma non lo erano. Ha giocato due stagioni a Rhode Island e poi si è dichiarato per i draft. Totalmente ignorato, ha provato a ricevere una chiamata frequentando le summer league. Zack era una guardia forte fisicamente, più “largo” di Steph ma non aveva lo stesso genio. Ha giocato in Venezuela, nelle leghe minori, non è diventato nulla. Non aveva il genio di Steph e neppure di Sebastain Telfair che però è stato già un prodotto di una nuova era, quella dei teen-agers scelti per essere star prima di dimostrarlo sul serio. Amici veri, amici presunti, un entourage di aiutanti e consiglieri, ragazze.
Bassy è stato sulla copertina di Slam, è stato fotografato con modelle in bikini sullo sfondo da “Dime”, hanno scritto di lui il New York Times, il Daily News, ESPN The Magazine. Troppo presto per confinarlo in un college. Infatti è andato subito nella NBA e l’etica che l’aveva portato fino lì è andata in fumo insieme ai tanti progressi che ancora doveva compiere.


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