Nel 1990, i Los Angeles
Lakers scelsero alla fine del primo giro il serbo Vlade Divac. Jerry Krause non
lo prese perché non sapeva bene chi fosse e quanto valesse. Decise che da quel
momento avrebbe iniziato a seguire il mercato europeo come meritava e non gli
sarebbe più sfuggito nessuno. “Se in Europa ci sarà un altro Divac lo troverò e
lo porterò a Chicago”, giurò a sé stesso. L’innamoramento di Krause
per Kukoc cominciò allora e gli creò non pochi problemi con Scottie Pippen, che
chiedeva un nuovo contratto e vedeva i Bulls spendere soldi ed energie per
inseguire la “Croatian Sensation”. “Ho un sogno – confessò Krause – Toni in
mezzo a portare palla e Jordan e Pippen ai suoi fianchi”. Quando Kukoc arrivò
in America invece Jordan si ritirò e i Bulls smisero di essere la squadra che
Toni pensava di trovare. In compenso ebbe subito più spazio del previsto.
Nel
1996 vinse il premio riservato al miglior sesto uomo della stagione. Il suo
rapporto con Phil Jackson era però delicato. “Il fatto è che Toni è affetto dalla
sindrome del giocatore europeo – disse Krause -, tende a mancare di intensità
in partita e in allenamento specie quando è in difesa, così va continuamente
stimolato”. E’ quello che faceva Jackson riprendendolo quando sottovalutava un
possesso di palla concedendo canestri facili o esitando al tiro. Jackson gli
rimproverava di non avere la mentalità del giocatore che dà tutto in ogni
partita arrivando a sostenere che giocasse con maggiore aggressività quando
sapeva che la partita sarebbe stata vista in televisione in Croazia.
Quando
Krause stava cercando di convincerlo a giocare per i Bulls rinunciando a
Treviso, chiese a Jordan di fargli una telefonata sperando potesse essere
un’arma decisiva. “Non parlo lo slavo”, fu la raggelante risposta di Michael che
nella vicenda si era schierato con Pippen. Nel 1992 alle Olimpiadi, la prima
volta che il Dream Team incontrò la Croazia, nella prima fase del torneo, gli
americani ebbero come obiettivo quello di ridicolizzarlo, riservandogli un
trattamento difensivo speciale. Ma anziché abbattersi, Toni capì che era invece
il momento di andare nella NBA. Nessuno, dopo le sue prime partite ai Bulls,
ebbe più dubbi sulla legittimità della sua presenza, ma gara 1 della Finale del
1996, ancor più del titolo di miglior sesto uomo, lo incoronò come uomo adatto
alle partite più importanti anche se nello spogliatoio continuava ad essere il
pupillo di Krause e, come tale, non del tutto accettato dal resto della
squadra.
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