Bradley veniva da un piccolo paese del Missouri,
Crystal City, figlio del banchiere locale e di una ex giocatrice dai gusti
raffinati che raddoppiava gli impegni scolastici del figlio con lezioni di
musica, di lingue straniere, di sport improbabili. Il piccolo Bill era un
prodigio a scuola e un giocatore di basket sorprendente. Non aveva talento
atletico e non superò i 195 centimetri di statura. A livello professionistico
sarebbe stato considerato piccolo e lento. Ma negli anni di Crystal City si
allenava senza soluzione di continuità. Non si concedeva un minuto di riposo,
di sosta, di svago. Bill Bradley contro il canestro, anche di notte, senza
luci, perché migliorava il suo fiuto per il canestro. Lavorava sul palleggio
usando occhiali che gli impedissero di guardare il pallone mentre cambiava
mano. Passeggiava accanto alle vetrine dei negozi e senza voltare la testa
cercava di memorizzare tutto quello che vedeva. Poi tornava indietro per capire
cosa gli fosse sfuggito. Allenava la visione periferica.
Quando venne il momento di scegliere il college, era
combattuto tra una scelta sportiva e una accademica. Duke poteva essere la
soluzione ideale e la annunciò. Cambiò idea alla vigilia dell’anno scolastico
deviando su Princeton dove le borse di studio sportive non erano e non sono
ammesse. Non voleva che la passione per il basket compromettesse gli impegni
accademici. Giocò alla grande anche a Princeton, da senior fu nominato MVP di
un torneo al Garden di New York in cui Princeton fu sconfitta in finale da
Michigan. Red Holzman era presente e vide Bradley “abusare” degli avversari,
compreso Cazzie Russell – stella dei Wolverines -, poi commise il quinto fallo
e dovette dare il via libera agli avversari. Russell assunse il controllo della
gara e portò Michigan al successo. I due si sarebbero ritrovati alla Final Four
NCAA di Portland. Michigan vinse 93-76 ma Bradley segnò 29 punti. Nella
finalina per il terzo posto (allora si giocava, oggi non più) contro Wichita
State, Bradley segnò 58 punti: sono ancora oggi record assoluto per una partita
delle Final Four. Come lo sono gli 87 punti che segnò in due gare o i 22
canestri della partita contro Wichita State.
Nei draft del 1965 i Knicks riuscirono a prendere
Bradley con un extra-pick. La NBA all’epoca aveva bisogno di attirare pubblico,
le attenzioni dei media, anche a costo di piegare qualche norma. Per questa
esistevano i “pick territoriali” in cui una squadra aveva il diritto di
prendere un giocatore che avesse frequentato il college entro un raggio di 75
miglia dalla propria sede. I Knicks litigarono con Philadelphia per Bradley
(Princeton è nel New Jersey: fossero esistiti i Nets a quei tempi…) ed ebbero
la meglio probabilmente perché New York era più vitale per la NBA di quanto lo
fosse Philadelphia. Il tutto per un giocatore che aveva già annunciato
l’intenzione di non giocare a basket a livello professionistico, giudicato
troppo impuro per un uomo della sua dirittura morale. E poi era identificato
come “La Grande Speranza Bianca” in una lega sempre più nera: la sua vita
privata era già allora oggetto di interesse morboso. Disse che si sarebbe
trasferito in Inghilterra per studiare a Oxford due anni: gli sarebbe servito
per la sua futura carriera politica. I Knicks lo sapevano ma decisero di
correre il rischio. Avrebbero aspettato due anni prima di assegnargli la maglia
numero 24. Nel primo di quei due anni Bradley giocò nel Simmenthal Milano solo
le partite della Coppa dei Campioni, praticamente senza allenarsi. La vinse nella
finale di Bologna del 1966. Ma l’esperienza non venne replicata l’anno
seguente.
Bradley somigliava ad un ex giocatore quando per
passare il tempo decise di andare ad eseguire qualche tiro nella palestra di
Oxford. All’improvviso sentì rinascere dentro la voglia di giocare. Tre
settimane dopo, nel ristorante Mama Leone’s di Manhattan, i Knicks presentarono
il “Messia”. La stampa lo soprannominò “Dollar Bill” quando trapelò che il suo
contratto valeva 125.000 dollari a stagione. Ma quando arrivò a New York trovò
in squadra… Cazzie Russell.
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