Quando Olajuwon uscì per
la prima volta dal terminal dello Houston Hobby Airport era forte dei suoi 208
centimetri lungo i quali all’epoca non erano distribuiti più di 80 chili, il
frutto di un’alimentazione incompleta, riso sei volte alla settimana e poco
d’altro. Aveva in tasca l’indirizzo della University of Houston e un pacchetto
di banconote arrotolate e nascoste chissà dove. Fermò un taxi. Prese posto sul
sedile posteriore e con il suo accento africano colpì l’autista come un
fulmine. “Ehi ma tu sei nigeriano come me!”. Il primo contatto di Hakeem
Olajuwon con Houston fu subito fortunato, un segno del destino. Veniva da una
giornata spesa in aereo. Cinque università da visitare, la prima doveva essere
St.John’s, appena sbarcato a New York. Ma era l’ottobre del 1980 e appena mise
la testa fuori dal terminal del JFK nel Queens, una ventata gelida lo rispedì
all’interno. Andò subito al bancone del check-in e si fece anticipare il volo
per Houston, previsto due giorni più tardi. Ricordava che all’ambasciata
americana, dov’era andato per ottenere il visto d’ingresso negli Stati Uniti,
gli avevano detto che New York è freddissima l’inverno e che Houston, per lui
amante del caldo, sarebbe stata molto meglio. E poi Christopher Pond,
l’allenatore americano nato nel North Carolina ma con la vocazione del
missionario in valigia, che l’aveva scoperto ai Campionati Africani juniores
dove guidava il Centrafrica, gli aveva chiesto come favore personale di
considerare Houston prima di qualsiasi altra destinazione, vale a dire North
Carolina State, Georgia, St.John’s e Providence, insomma tutte quelle che
avevano accettato di dare uno sguardo a questo ragazzone di Lagos.
A 16 anni, Hakeem non
sapeva neanche cosa fosse il basket. Non aveva mai visto una partita, né aveva
mai giocato. A 17 ottenne una borsa di studio da Houston e nel 1983, quattro
anni dopo aver cominciato, già giocava le Final Four NCAA con i Cougars. Sembra
la veloce trama di un film partorito dalla fantasia di qualche sceneggiatore di
Hollywood. Sembrerebbe, anche, una storia fin troppo bella per essere vera.
Invece Hakeem Olajuwon, nigeriano della tribù degli Yoruba, questa storia,
questo sogno li ha vissuti davvero.
Nei suoi quattro anni
americani pre NBA, Hakeem cullò spesso il sogno di giocare nei Rockets in
quella che era diventata ovviamente la sua città. Nel 1984, Houston e Portland
si sarebbero giocate alla monetina, come si faceva allora, il diritto di prima scelta.
C’erano il 50% di possibilità che i Rockets vincessero e lo scegliessero per
creare, con lui e il 2.24 Ralph Sampson, le “Twin Towers”, le torri gemelle. La
prospettiva di giocare a Houston fu la motivazione principale che lo spinse a
lasciare il college con un anno di anticipo. Se poi fosse finito a Portland
avrebbe giocato con l’amico Clyde Drexler, suo compagno all’università. Di
sicuro Olajuwon sapeva che sarebbe stato il numero 1 o il 2 del draft del 1984,
considerato in retrospettiva forse il più grande di sempre.
I giorni precedenti la
cerimonia furono vissuti con grande tensione. “Portland aveva bisogno di me più
di quanto ne avesse Houston – ricordò Hakeem – così quando i Rockets vinsero il
lancio della monetina, i Blazers proposero subito uno scambio: avrebbero dato
la scelta numero 2 e Clyde Drexler in cambio di me o Sampson”. Houston avrebbe
potuto cedere Sampson ai Blazers, scegliere Olajuwon al numero 1, chiamare
Michael Jordan al numero 2 e completare il trio con Clyde Drexler. “Fosse successo,
quanti titoli avremmo vinto?”, si chiese in seguito Olajuwon. Invece Houston si
tenne Sampson e si tenne anche il diritto di chiamare al numero 1 così prese
Olajuwon, anche se in fase di negoziazione del contratto più volte gli paventò
la possibilità di cederlo. Alla fine, l’inesperto e mal consigliato Hakeem
(scelse come agente un uomo d’affari di Houston con nessuna esperienza in
materia ma un’onestà a prova di bomba, che nei mesi in cui la scuola era chiusa
aveva dato ad Hakeem un lavoro in una delle pompe di benzina di sua proprietà)
firmò, per la stessa cifra riconosciuta a Sampson un anno prima, un contratto
di due anni più lungo.
Al suo arrivo in America,
Olajuwon prese la sana abitudine di trascorrere molti dei suoi pomeriggi estivi
a Fondè, la palestra più famosa del Texas dove puoi giocare con le stelle dei
Rockets, i migliori giocatori della zona e tenerti in forma ad un livello di
competizione altissimo. Poi la sera, tornando a casa, si fermava al playground
della Rice University, vicino al monolocale in cui soggiornava. Fu lì che
conobbe Lita, una studentessa di Rice che gli avrebbe dato la sua unica figlia,
Abisola, nata il 6 luglio del 1988. Quando nacque Abisola, Olajuwon e Lita
vivevano insieme da quattro anni ma cinque giorni dopo la nascita della bambina
si separarono: Lita chiedeva di essere sposata con tutti i crismi
dell’ufficialità, l’orgoglioso Hakeem era offeso, irritato, dalla sua
insistenza. Lita se ne andò.
Intanto, la riscoperta
dell’islam era diventata un momento fondamentale della sua vita. Aveva chiesto
ufficialmente di correggere il proprio nome da Akeem ad Hakeem, secondo
l’esatta grafia araba. Nel luglio del 1991, come migliaia di altri fedeli, era
andato alla Mecca per il cosiddetto Hajj, il periodo annuale di quattro giorni
in cui i pellegrini si recano nel tempio della loro fede. “Leggevo il Corano
giorno e notte e ogni volta girando pagina scoprivo nuove sensazioni.
Bellissimo. Tutti gli islamici una volta nella vita dovrebbero andare alla
Mecca. Ma se un fedele non ha i mezzi economici per permetterselo, Allah lo
ricompensa come se ci fosse stato se è certo che ci abbia almeno provato. Mio
padre ha risparmiato tutta la vita per potersi permettere di andare alla Mecca
e quando c’è andato ha conosciuto la felicità. Io i soldi li ho sempre avuti…”
Il suo rapporto d’amore
con Houston era appena uscito dalla più profonda delle crisi quando Hakeem si
apprestava a giocare nel 1994 la seconda Finale della sua carriera dopo quella
del 1986 persa contro Boston per 4-2.
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