C’era un sole cocente il
giorno in cui Orlando, ospitando la prima partita della Finale, entrava
ufficialmente nel grande mondo del basket NBA. Nick Anderson fu uno dei primi
ad arrivare alla O-rena. Accompagnato dal figlioletto, parcheggiò l’auto appena
fuori l’ingresso riservato agli atleti. Si cambiò rapidamente e poi diede
inizio alla sua routine pregara fatta di tiri da ogni posizione e molti tiri
liberi. Ne sbagliò pochissimi quel giorno, come sempre del resto. Non avrebbe
mai immaginato quel che sarebbe accaduto poche ore dopo. Forse avrebbe dovuto.
Chi conosce Nick Anderson sa che è tanto duro fisicamente quanto fragile
dentro.
Nick viene da una delle
peggiori zone di Chicago ed è sempre stato abituato a convivere con un mondo
fatto di spacciatori, di delinquenti, di droga e violenza. Uno dei suoi amici,
Benji Wilson che secondo la leggenda era più forte di lui, un giorno per un
banale screzio di strada finì sdraiato in terra in una pozza di sangue. Ucciso.
Nick ne fu sconvolto. Dedicò all’amico scomparso tutta la sua carriera
indossando sempre il suo numero 25. Anderson fu il primo uomo scelto da Orlando
nella sua storia, una guardia tiratrice in grado di giocare in pivot basso, di
aggredire in difesa e di far pesare sempre i propri muscoli. Un giocatore
straordinario e anche un bravo ragazzo. Ma il cuore, la testa, quel giorno di
giugno del 1995, lo tradirono inaspettatamente e immeritatamente.
Orlando era avanti 57-37
alla fine del primo tempo, in totale controllo della partita. Dominante. Ma nel
secondo tempo, Kenny Smith, l’uomo che aveva impiegato sette partite della
Finale precedente per trovare un po’ di ritmo al tiro, cominciò a ferire la
difesa dei Magic dall’arco dei tre punti. Infilò sei triple riportando i
Rockets da meno 20 a meno tre. Fu in quel momento che Nick Anderson si procurò
i due tiri liberi della vittoria a nove secondi dal termine. Quando si avvicinò
in lunetta, sentì il pallone pesare. Fin troppo. Aveva lo sguardo spaurito di
chi sente troppo l’importanza del momento. Davanti agli occhi passarono
immagini di povertà, disperazione, pressione. Vide Benji Wilson a terra, mentre
annegava nel suo stesso sangue. E in mano aveva il pallone che forse avrebbe
convalidato la sua carriera. Tirò un “mattone”. Poi ne tirò un altro. Il secondo
errore colse tutti di sorpresa, nessuno controllò il rimbalzo. Istintivamente
fu lui a tuffarsi sulla palla, conquistandola. Subì un secondo fallo. Era la
sua chance di rifarsi immediatamente. Aveva appena commesso due errori
madornali. Ma poteva cancellarli subito. Era stato bravo e fortunato. Mancavano
sette secondi e nove decimi alla fine.
Mentre si incamminò verso
la linea di tiro libero si rese conto che avrebbe voluto andare dappertutto
tranne lì. Tranne che in lunetta un seconda volta. Era ostaggio del panico.
Bastò guardarlo negli occhi per capire che aveva ancora più paura, che avrebbe
sbagliato di nuovo. Quattro volte di fila. Incredibile.
Ma Orlando era ancora
avanti di tre e nessuno si sarebbe ricordato di quei quattro errori se avesse
vinto la partita, se i Rockets non avessero segnato da tre pareggiando e poi
vincendo al supplementare o se Brian Hill, il coach di Orlando, avesse
comandato un fallo sul palleggio prevenendo il tiro da tre. “Non fa parte della
mia filosofia – spiegò -, c’è sempre il rischio di concedere un gioco da
quattro punti o che l’attaccante riesca ad affrettare il tiro e procurarsi tre
tiri liberi. Meglio difendere forte fino in fondo”. Ma difendendo forte fino in
fondo, Kenny Smith riuscì a prendersi un tiro da tre punti da posizione
frontale. La palla accarezzò solo la retina. Fu il pareggio. Robert Horry
realizzò due canestri da tre punti all’inizio del supplementare. Orlando non
mollò. A 5.5 secondi dalla fine, Dennis Scott segnò il 118-118 sempre da tre
punti. Ma i Rockets avevano un ultimo possesso di palla. Clyde Drexler
palleggiò verso la linea di fondo, eseguì un tiro in corsa senza speranze. Il
tiro, nettamente corto, fu preda di Oljuwon che mise dentro la palla con 0.3
secondi da giocare. Il silenzio calò sulla O-rena. “Ho pensato di aver segnato
dopo la sirena o che il canestro fosse stato annullato perché non ho avvertito
alcuna reazione. Così non ho esultato”, raccontò poi Olajuwon mentre
Tomjanovich dovette ammettere che “siamo stati fortunati”.
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