domenica 13 agosto 2017

NBA Finals 1995: il dramma di Nick Anderson

C’era un sole cocente il giorno in cui Orlando, ospitando la prima partita della Finale, entrava ufficialmente nel grande mondo del basket NBA. Nick Anderson fu uno dei primi ad arrivare alla O-rena. Accompagnato dal figlioletto, parcheggiò l’auto appena fuori l’ingresso riservato agli atleti. Si cambiò rapidamente e poi diede inizio alla sua routine pregara fatta di tiri da ogni posizione e molti tiri liberi. Ne sbagliò pochissimi quel giorno, come sempre del resto. Non avrebbe mai immaginato quel che sarebbe accaduto poche ore dopo. Forse avrebbe dovuto. Chi conosce Nick Anderson sa che è tanto duro fisicamente quanto fragile dentro.
Nick viene da una delle peggiori zone di Chicago ed è sempre stato abituato a convivere con un mondo fatto di spacciatori, di delinquenti, di droga e violenza. Uno dei suoi amici, Benji Wilson che secondo la leggenda era più forte di lui, un giorno per un banale screzio di strada finì sdraiato in terra in una pozza di sangue. Ucciso. Nick ne fu sconvolto. Dedicò all’amico scomparso tutta la sua carriera indossando sempre il suo numero 25. Anderson fu il primo uomo scelto da Orlando nella sua storia, una guardia tiratrice in grado di giocare in pivot basso, di aggredire in difesa e di far pesare sempre i propri muscoli. Un giocatore straordinario e anche un bravo ragazzo. Ma il cuore, la testa, quel giorno di giugno del 1995, lo tradirono inaspettatamente e immeritatamente.

Orlando era avanti 57-37 alla fine del primo tempo, in totale controllo della partita. Dominante. Ma nel secondo tempo, Kenny Smith, l’uomo che aveva impiegato sette partite della Finale precedente per trovare un po’ di ritmo al tiro, cominciò a ferire la difesa dei Magic dall’arco dei tre punti. Infilò sei triple riportando i Rockets da meno 20 a meno tre. Fu in quel momento che Nick Anderson si procurò i due tiri liberi della vittoria a nove secondi dal termine. Quando si avvicinò in lunetta, sentì il pallone pesare. Fin troppo. Aveva lo sguardo spaurito di chi sente troppo l’importanza del momento. Davanti agli occhi passarono immagini di povertà, disperazione, pressione. Vide Benji Wilson a terra, mentre annegava nel suo stesso sangue. E in mano aveva il pallone che forse avrebbe convalidato la sua carriera. Tirò un “mattone”. Poi ne tirò un altro. Il secondo errore colse tutti di sorpresa, nessuno controllò il rimbalzo. Istintivamente fu lui a tuffarsi sulla palla, conquistandola. Subì un secondo fallo. Era la sua chance di rifarsi immediatamente. Aveva appena commesso due errori madornali. Ma poteva cancellarli subito. Era stato bravo e fortunato. Mancavano sette secondi e nove decimi alla fine.
Mentre si incamminò verso la linea di tiro libero si rese conto che avrebbe voluto andare dappertutto tranne lì. Tranne che in lunetta un seconda volta. Era ostaggio del panico. Bastò guardarlo negli occhi per capire che aveva ancora più paura, che avrebbe sbagliato di nuovo. Quattro volte di fila. Incredibile.
Ma Orlando era ancora avanti di tre e nessuno si sarebbe ricordato di quei quattro errori se avesse vinto la partita, se i Rockets non avessero segnato da tre pareggiando e poi vincendo al supplementare o se Brian Hill, il coach di Orlando, avesse comandato un fallo sul palleggio prevenendo il tiro da tre. “Non fa parte della mia filosofia – spiegò -, c’è sempre il rischio di concedere un gioco da quattro punti o che l’attaccante riesca ad affrettare il tiro e procurarsi tre tiri liberi. Meglio difendere forte fino in fondo”. Ma difendendo forte fino in fondo, Kenny Smith riuscì a prendersi un tiro da tre punti da posizione frontale. La palla accarezzò solo la retina. Fu il pareggio. Robert Horry realizzò due canestri da tre punti all’inizio del supplementare. Orlando non mollò. A 5.5 secondi dalla fine, Dennis Scott segnò il 118-118 sempre da tre punti. Ma i Rockets avevano un ultimo possesso di palla. Clyde Drexler palleggiò verso la linea di fondo, eseguì un tiro in corsa senza speranze. Il tiro, nettamente corto, fu preda di Oljuwon che mise dentro la palla con 0.3 secondi da giocare. Il silenzio calò sulla O-rena. “Ho pensato di aver segnato dopo la sirena o che il canestro fosse stato annullato perché non ho avvertito alcuna reazione. Così non ho esultato”, raccontò poi Olajuwon mentre Tomjanovich dovette ammettere che “siamo stati fortunati”.




 
 

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