lunedì 31 luglio 2017

NBA Finals 1993: Charles Barkley

La storia di Charles Barkley comincia a Leeds, piccola città dell’Alabama dove Chuck viveva con la madre, un fratello più piccolo e la nonna cui era legato da affetto quasi morboso. Il padre Frank abbandonò la famiglia quando Charles aveva solo 13 mesi. I due si rividero otto anni dopo ma il rapporto non nacque mai. Barkley senior si era trasferito in California costruendosi una nuova vita, una nuova famiglia. Finita l’high school, con pochi dollari in tasca, Charles venne reclutato da Auburn sempre in Alabama, un buon college dal punto di vista sportivo dove il basket però viene sempre dopo il football.

Barkley giocò bene ad Auburn ma a quei tempi l’esposizione in un college del genere era minima. Quand’era junior, in squadra arrivò Chuck Person, che poi ha giocato tanti anni nella NBA ad alto livello soprattutto a Indiana, ma i due legarono poco: Person era un tiratore egoista, Barkley giocava meno palloni e non la prese bene. Bisognava capirli: non giocavano solo per la gloria o l’ego personale, in palio c’era molto di più, c’era la visibilità indispensabile per approdare nella NBA e fare i soldi. Era l’obiettivo umano di entrambi.
Di Barkley si accorse Sports Illustrated: gli dedicò un servizio fotografandolo circondato da cartoni di pizze da asporto. Non proprio il genere di immagine che vorresti diffondere. Ma Barkley era abbastanza forte da potersi permettere di pensare alla NBA, anche in anticipo sui tempi. Decise di dichiararsi per i draft del 1984 e puntò tantissimo sulle selezioni della squadra olimpica di Los Angeles ’84. Ai try-out di Bloomington, sotto il generale Bobby Knight, l’obiettivo di Barkley non era necessariamente fare la squadra ma convincere gli scout di valere una chiamata alta nei draft. Era un uomo in missione: nessuno a Bloomington, nell’Indiana, giocò meglio di lui.
Raggiunto il proprio obiettivo, cominciò a fare… il Barkley, perché andare alle Olimpiadi nel 1984 non significava nulla per lui. Si allenò in maniera svogliata e Bobby Knight lo tagliò a favore di Jeff Turner, che non valeva la metà di lui.
Nei draft del 1984, Houston doveva scegliere con il numero 1 e nonostante avesse già in squadra il 2.23 Ralph Sampson, decise di selezionare un altro centro, Hakeem Olajuwon. Portland decise di prendere Sam Bowie con il numero 2 lasciando che Michael Jordan andasse a fare la storia a Chicago. Al numero 4 toccava a Philadelphia. Dicono che l’ultima parola ai Sixers spettasse al vecchio leader Julius Erving e questi indicò Barkley. Gli avrebbe sottratto attenzioni, avrebbe dato una mano a Moses Malone a rimbalzo, gli avrebbe consentito di riposare qualche minuto in più a partita, una buona prospettiva a 34 anni.
I Sixers organizzarono un provino. L’unico problema vero era il peso. Pat Williams, all’epoca general manager di Philadelphia, intimò a Barkley di perdere cinque chili in quindici giorni. Se lo avesse fatto, Philadelphia l’avrebbe scelto con il numero 4. Ma nel frattempo Lance Luchnick, l’agente di Barkley, scoprì che la situazione salariale dei Sixers era complicata e al rookie avrebbero potuto dare solo il salario minimo previsto in una NBA in cui il concetto di “salary cap” era appena stato introdotto. I due architettarono un piano stupido e diabolico al tempo stesso. Barkley si sarebbe presentato alle operazioni di peso… ingrassato. “Ancora oggi – dice Barkley – vedo la faccia di Pat Williams davanti alla bilancia. Fece una smorfia, disgustato”. Ma lo scelse lo stesso.
L’assunzione di Luchnick fu un grave errore aldilà di quel disgraziato consiglio che non ebbe conseguenze gravi. Barkley scelse lui perché aveva esperienza ma non aveva clienti più quotati e quindi gli avrebbe riservato le attenzioni maggiori. E poi parlava come un ragazzo di strada come lui, era bianco ma aveva familiarità con la cultura afroamericana. Barkley fu ancora più convinto della propria scelta dopo un paio di anni insieme: andavano perfettamente d’accordo, qualche volta uscivano insieme e si divertivano. Ma a quei tempi Barkley era ancora un ragazzo ingenuo: lasciava che fosse Luchnick a ricevere lo stipendio dai Sixers e si faceva consegnare solo 10.000 dollari al mese per le sue spese. Luchnick pagava le tasse di Barkley e investiva i suoi soldi. E inoltre tratteneva il 10% dei suoi guadagni. Dopo qualche anno venne fuori la verità: sul New York Times apparve un articolo molto pesante nei confronti di Luchnick. Si diceva che pagasse i giocatori del college per opzionarli in vista del loro futuro approdo nella NBA, che gestisse in modo dubbio i soldi di diversi giocatori, tra cui venivano menzionati Terry Catledge, Cliff Robinson e Maurice Cheeks. Quest’ultimo era uno dei veterani dei Sixers di Barkley: Cheeks lo mise in guardia. Barkley come unica accortezza cominciò a farsi accreditare direttamente lo stipendio. Dopo qualche tempo, convinto dalla madre, assunse Glenn Guthrie, un uomo d’affari dell’Alabama, per “leggere” dentro i suoi investimenti. Scoprì in un attimo di essere quasi al verde. Luchnick aveva fatto investimenti folli, in terreni desertici, un ranch nel Texas, due hotel di cui uno già fallito, un’autorimessa e in più pagava in ritardo o non pagava affatto le tasse. Da allora, Barkley ha fatto solo investimenti sicuri, ha chiesto a Guthrie di trattare i suoi contratti e non ha più assunto agenti.
A Philadelphia, per almeno tre anni Barkley giocò in una squadra forte e con compagni di squadra leggendari. Contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare, si innamorò più di Moses Malone che di Julius Erving. “Il Doc era un signore, ma aveva sempre questo atteggiamento distaccato, da uomo d’affari, poco coinvolto. Una volta, ero un rookie, gli espressi le mie perplessità sulla squadra e suggerii di parlare ai ragazzi. Mi rispose che era d’accordo e che potevo farlo io, lui mi avrebbe sostenuto. Credo non volesse più gestire la responsabilità di fare il leader e si stesse disimpegnando”, raccontò Barkley. Big Mo invece fu il suo grande maestro, un mentore. “Tutto quello che ho imparato l’ho imparato da Moses. Lui parlava con i ragazzi più giovani, li metteva in guardia sui pericoli, sui soldi facili, la droga che a quei tempi circolava tutta attorno a noi”. Dopo tre anni di NBA, Barkley divenne ufficialmente il leader dei Sixers. Il guaio è che la squadra non era più in grado di seguirlo.
Nella primavera del 1989 il fratello Darryl “regalò” a Barkley qualche titolo di troppo sui giornali scandalistici. A Leeds, dove ancora viveva con mamma e nonna, Darryl fu arrestato mentre cercava di vendere droga ad un agente sotto copertura. Fu incarcerato e sottoposto ad un programma riabilitativo che non funzionò. Nell’ottobre del 1989 fu colpito da un infarto: la cocaina aveva indebolito il cuore. Darryl sopravvisse ma confinato su una sedia a rotelle. Cambiò vita, si sposò, cancellò la droga dalla sua vita, si riavvicinò a Charles con il quale i rapporti erano stati freddi per anni. Darryl era geloso del fratello famoso, dei suoi soldi, della sua popolarità a Leeds. Aveva cominciato a detestarlo, a sfidarlo fino a detestarsi a sua volta. Da lì le cattive compagnie, le scelte mal consigliate, un senso latente di autodistruzione e il dramma.
I risultati negativi dei Sixers convinsero Barkley a chiedere spesso la cessione. Il nervosismo gli tirò qualche brutto scherzo come quella volta in cui sputò ad un tifoso che lo insultava e erroneamente colpì una bambina di otto anni. Criticò i compagni pubblicamente, anche duramente. Nel 1992, al culmine di un rapporto ormai impossibile, venne finalmente ceduto. L’ultima parola fu quella di Doug Moe, appena nominato allenatore dei Sixers: “Vidi al video le partite dei Sixers dell’anno precedente: era svogliato, non aveva fuoco dentro, era demotivato. Meglio rinunciare a lui”, disse. Finì a Phoenix, in una squadra da titolo, in cambio di Andrew Lang, Tim Perry e Jeff Hornacek. Nei mesi successivi diventò anche un personaggio riconosciuto a livello mondiale.
Come membro del Dream Team originale, Barkley partecipò alle Olimpiadi di Barcellona dove si riprese l’oro che aveva ignorato otto anni prima autoescludendosi dalla Nazionale USA di Los Angeles 1984. Con Larry Bird sofferente alla schiena e in procinto di ritirarsi, Magic Johnson già ritiratosi, lui era – dopo Michael Jordan – la vera stella della squadra e probabilmente anche il giocatore che offrì il rendimento migliore. Fuori del campo diventò allo stesso tempo un idolo e il giocatore più odiato. Nella prima partita, contro Angola, sferrò una gomitata proditoria ad un giocatore angolano – Herlander Coimbra - che gli garantì fischi e critiche spietate. “Ho fatto a lui quello che avrei fatto a qualsiasi giocatore NBA: era il mio modo di rispettarlo”, spiegò. Le critiche non lo scossero: la notte si tuffava sulle Ramblas come un turista qualunque, mischiandosi alla gente che lo riconosceva, lo avvicinava, trasformandolo in un eroe a misura d’uomo. 
Dopo le Olimpiadi di Barcellona, a differenza dei suoi compagni di squadra, eccitato dalle prospettive dei suoi Suns, non volle neppure un giorno di vacanza supplementare. Si presentò al training camp insieme ai nuovi compagni. Era in un momento della sua vita particolare: la moglie Maureen, biondissima, non lo seguì in Arizona rimanendo a Philadelphia assieme alla figlia Christiana. Il coach al primo anno, Paul Westphal, lo impiegò all’ala forte aprendo spazio in ala piccola a Cedric Ceballos e al discusso talento di Richard Dumas, creando una squadra da contropiede e con più punti nelle mani di qualunque altra. I Suns vinsero 62 partite in stagione regolare e poi navigarono attraverso playoffs molto difficili: persero con i Lakers le prime due partite in casa, si salvarono al supplementare della terza e poi ribaltarono la situazione in cinque gare. Batterono San Antonio in sei partite e andarono alla settima contro Seattle. La notte prima di gara 7, Michael Jordan – suo grande amico – telefonò a Barkley e gli suggerì di “attaccare forte il ferro fin dall’inizio”. Charles segnò 44 punti e catturò 24 rimbalzi, una prestazione straordinaria. I Suns vinsero la partita e approdarono in Finale...




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