domenica 16 aprile 2017

Perché Houston e D'Antoni sono stati un connubio perfetto

Gli Houston Rockets hanno avuto il buon senso di scegliere D'Antoni per estremizzare le loro idee, coincidenti con quelle di Mike. I Knicks lo scelsero perché era un coach di moda. I Lakers perché avevano Steve Nash e una parte del club non voleva riprendersi in casa Phil Jackson. Ma D'Antoni quando è stato chiamato dai Rockets era un allenatore ai margini del mercato. Veniva da una brutta esperienza ai Lakers, aveva 65 anni e il suo ultimo lavoro era stato di assistente allenatore dei Sixers, praticamente un ruolo da saggio esperto. O da consulente dei due Colangelo. La differenza è che i Rockets volevano lui, le sue idee e il suo gioco.
Houston aveva avuto a sua volta una stagione pessima. Mentre la scuola di pensiero convenzionale vorrebbe che una squadra offensiva scegliesse un allenatore difensivo, i Rockets hanno puntato su un'identità forte. Non volevano una via di mezzo, un compromesso. Volevano abbracciare totalmente la filosofia del club prendendo il miglior allenatore per condividerla e implementarla. Poi sono andati sul mercato e hanno agito di conseguenza firmando due tiratori di elite come Eric Gordon e Ryan Anderson aggiungendoli a Trevor Ariza. E a febbraio hanno rincarato la dose con Lou Williams.
I Rockets hanno il secondo miglior attacco della Lega ma anche il terzo record assoluto. Hanno vinto più partite dei Cleveland Cavaliers pur giocando in una conference più forte. Nominare D'Antoni come coach dell'anno è inevitabile: è supportato dai risultati e dalla mossa più significativa della stagione ovvero la certificazione di un ruolo totale per James Harden che ha risposto vincendo la classifica degli assist e non andando tanto lontano da una tripla doppia media. Ma in questo caso i meriti di D'Antoni vanno oltre perché la sua stagione rappresenta la convalida di un sistema.
I playoffs restano complicati. I Rockets hanno le armi offensive per far saltare qualsiasi partita perché questo succede quando hai 50 triple tentate nelle mani. Pur essendo chiaro che questo stile di gioco conserva una sua aleatorieta' di fondo contro i Warriors di questa stagione probabilmente rappresenta l'unico tentativo credibile di batterli. Nessuno può essere migliore di Golden State per un anno ma i Rockets vorrebbero esserlo per due settimane tirando oltre ogni logica quantistica ma con il personale per provarci. Ma arriveranno ad affrontare i Warriors?
Il problema è questo. I Rockets non sono al sicuro nel primo turno contro Oklahoma City perché nessuno lo è contro questo Russell Westbrook che pare ispirato anche nel tiro da tre adesso. È una serie rischiosa. Naturalmente non sono al sicuro, anzi non partono favoriti, contro San Antonio nella eventuale semifinale di conference, una serie che opporrebbe una squadra tradizionale nella sua capacità di rigenerarsi ad una allenata da un coach costantemente in fuga solitaria.
E qui è giusto parlare di difesa perché se è vero che i Suns di D'Antoni difendevano meglio di come erano percepiti (avevano comunque una difesa da metà classifica), la differenza con i Warriors è proprio questa. Golden State gioca seguendo molti degli stessi principi di Houston (con giocatori di talento più ampio) in attacco ma poi ha anche la seconda difesa della Lega. I Rockets non hanno Kevin Durant  (motivato è difensore di altissimo livello) e Draymond Green  (il migliore di tutti?). Il loro miglior difensore è Patrick Beverley. Trevor Ariza è un buon difensore. Ma i Rockets come squadra non hanno la solidità difensiva per surrogare l'attacco qualunque serata esso viva.
Ma tutto questo oggi non conta. Oggi è giusto ricordare che il basket di D'Antoni discusso a Milano, Treviso, Phoenix, osteggiato a Denver, New York e Los Angeles, non solo funziona ma è al momento il basket di riferimento. Mike cerca di vincere perché è un agonista ma il suo posto nella storia del gioco è cementato comunque.
(3-fine)

Nessun commento: