martedì 18 aprile 2017

Mike D'Antoni: anatomia di un coach rivoluzionario (All In One)

All'inizio degli anni '90 quando Mike D'Antoni passò dal campo alla panchina di Milano, il gioco era fisico, tutti utilizzavano due lunghi, l’ala forte era praticamente un centro un po’ più basso e magari un po’ più pericoloso al tiro. Valeva in tutto il mondo. Nel 1999, quindi alla fine del decennio, San Antonio vinse il suo primo titolo NBA con Tim Duncan da ala forte e David Robinson da centro. I Knicks che giocarono la finale, al completo avevano Patrick Ewing da centro e Kurt Thomas o Marcus Camby come ali grandi. In Italia la Virtus di Messina campione d'Europa nel 1998 aveva Savic e Nesterovic e Frosini; nel 2001 vinse tutto con Frosini da 4 e Griffith da 5 più Smodis. Era un altro basket.
A Milano, D’Antoni aveva guidato in campo squadre con Meneghin e Gianelli; Meneghin e Carroll; Meneghin e McAdoo; Meneghin, McAdoo e Brown insieme addirittura. Ma  D’Antoni da allenatore scelse Jay Vincent come ala forte: per quei tempi era una rivoluzione perché Vincent era un 4 perimetrale, per quei tempi quasi un 3. La nascita dello “Smallball” che oggi caratterizza la NBA risale a quegli anni. D'Antoni l'ha ideato o applicato in Italia ed esportato. Gli statistici hanno dimostrato con i numeri che aveva sempre avuto ragione. A distanza di oltre venti anni D'Antoni resta il miglior interprete di questo stile di gioco. Tra poco gli varrà probabilmente il secondo titolo di allenatore dell'anno nella NBA.
In quattro anni, D’Antoni portò l’Olimpia ad una finale scudetto, una finale di Coppa Italia, alla vittoria in Coppa Korac contro Roma e ad una Final Four, nel 1992. A Istanbul, l’Olimpia arrivò a giocarsi la semifinale contro la squadra che poi avrebbe vinto il titolo, il Partizan Belgrado: i serbi non erano i favoriti ma con il senno di poi  avrebbero dovuto esserlo. Erano guidati da Zeljko Obradovic, il coach più vincente d’Europa (dopo), supportato come “senior assistant” da Aza Nikolic. In campo avevano Zeljko Rebraca, Sasha Djordjevic (che a fine anno sarebbe venuto a Milano) e Predrag Danilovic.
L’Olimpia aveva probabilmente compiuto un errore puntando su Darryl Dawkins e Johnny Rogers così appesantendo la squadra, spostando gli equilibri vicino a canestro e di fatto rinnegando i principi chiave del gioco di D’Antoni. Successe a Milano e poi sarebbe successo di nuovo a Phoenix quando presero Shaquille O'Neal rovinando gli equilibri degli anni precedenti.
D'Antoni con il suo stile vinse in Italia e in Europa prima a Milano e poi a Treviso dove Ricky Pittis si trasformò in un 4 a tempo pieno. Nella sua seconda esperienza NBA a Phoenix decise di andare fino in fondo con le sue idee. E avrebbe cambiato la storia.
Nel primo anno di D'Antoni a Phoenix, i Suns vinsero 62 partite ma furono eliminati nei playoffs dai San Antonio Spurs 4-1 giocando con mezzo Joe Johnson che si era rotto un osso sopra l'occhio. Gli Spurs avrebbero eliminato Phoenix tre volte in quattro stagioni, in due di queste tre volte avrebbero poi vinto il titolo. Nel 2006, i Suns di D’Antoni furono battuti da Dallas 4-2. La prima Phoenix aveva Steve Nash nei panni dell'attuale James Harden di Houston (fu due volte MVP), Joe Johnson e Quentin Richardson come esterni. Shawn Marion da ala forte. Amar'e Stoudemire da centro.
Segnavano 115.01 punti ogni 100 possessi nel 2004/05. Quest'anno i Warriors ne segnano 115.7. Quei Suns erano offensivamente al livello dei Warriors di Curry, Durant e Thompson. I punti ogni 100 possessi furono 112.27 nel 2005/06 quando Joe Johnson venne ceduto ad Atlanta e Quentin Richardson a New York, gli esterni del quintetto erano Raja Bell e Jimmy Jackson ma soprattutto i Suns non ebbero Stoudemire per 79 partite su 82. In quintetto avevano Kurt Thomas o Boris Diaw. In quel momento sembrava che il gioco funzionasse a patto che ci fosse Nash ovvero un playmaker creativo di estremo talento. James Harden in fondo è l'evoluzione della specie dal punto di vista atletico e della mentalità. Rientrato Stoudemire nel 2006/07 schizzarono di nuovo a 114.68 punti ogni 100 possessi. In sostanza lo stesso ritmo dei Rockets di oggi, che sono la seconda squadra della Lega per rating offensivo.
Avevano la stessa squadra dell'anno precedente. Vinsero 61 partite. Probabilmente avrebbero vinto il titolo senza il giallo delle sospensioni in gara 5 nella serie con San Antonio. L'errore lo fecero dopo, scambiando per O'Neal. Come era stato un errore a Milano prendere Darryl Dawkins.
L'esperimento O'Neal e poi quanto è accaduto soprattutto ai Lakers con Dwight Howard più che ai Knicks, e alla luce della stagione dei Rockets, dimostra chiaramente che D'Antoni come allenatore ha un'identità precisa. Come Phil Jackson e il triangolo o al college Jim Boeheim e la zona 2-3, Bobby Knight e il suo motion offense, Dean Smith e il T-Game eccetera. Chiedere a D'Antoni di allenare una squadra che non ne assecondi le idee è autolesionismo. Ha funzionato a New York ad esempio prima di Carmelo Anthony e nell'interregno della Linsanity. Ma supportato nelle sue idee non solo queste funzionano ma escono esaltate dagli interpreti.

Gli Houston Rockets hanno avuto il buon senso di scegliere D'Antoni per estremizzare le loro idee, coincidenti con quelle di Mike. I Knicks lo scelsero perché era un coach di moda. I Lakers perché avevano Steve Nash e una parte del club non voleva riprendersi in casa Phil Jackson. Ma D'Antoni quando è stato chiamato dai Rockets era un allenatore ai margini del mercato. Veniva da una brutta esperienza ai Lakers, aveva 65 anni e il suo ultimo lavoro era stato di assistente allenatore dei Sixers, praticamente un ruolo da saggio esperto. O da consulente dei due Colangelo. La differenza è che i Rockets volevano lui, le sue idee e il suo gioco.
Houston aveva avuto a sua volta una stagione pessima. Mentre la scuola di pensiero convenzionale vorrebbe che una squadra offensiva scegliesse un allenatore difensivo, i Rockets hanno puntato su un'identità forte. Non volevano una via di mezzo, un compromesso. Volevano abbracciare totalmente la filosofia del club prendendo il miglior allenatore per condividerla e implementarla. Poi sono andati sul mercato e hanno agito di conseguenza firmando due tiratori di elite come Eric Gordon e Ryan Anderson aggiungendoli a Trevor Ariza. E a febbraio hanno rincarato la dose con Lou Williams.
I Rockets hanno il secondo miglior attacco della Lega ma anche il terzo record assoluto. Hanno vinto più partite dei Cleveland Cavaliers pur giocando in una conference più forte. Nominare D'Antoni come coach dell'anno è inevitabile: è supportato dai risultati e dalla mossa più significativa della stagione ovvero la certificazione di un ruolo totale per James Harden che ha risposto vincendo la classifica degli assist e non andando tanto lontano da una tripla doppia media. Ma in questo caso i meriti di D'Antoni vanno oltre perché la sua stagione rappresenta la convalida di un sistema.
I playoffs restano complicati. I Rockets hanno le armi offensive per far saltare qualsiasi partita perché questo succede quando hai 50 triple tentate nelle mani. Pur essendo chiaro che questo stile di gioco conserva una sua aleatorieta' di fondo contro i Warriors di questa stagione probabilmente rappresenta l'unico tentativo credibile di batterli. Nessuno può essere migliore di Golden State per un anno ma i Rockets vorrebbero esserlo per due settimane tirando oltre ogni logica quantistica ma con il personale per provarci. Ma arriveranno ad affrontare i Warriors?
Il problema è questo. I Rockets non sono al sicuro nel primo turno contro Oklahoma City perché nessuno lo è contro questo Russell Westbrook che pare ispirato anche nel tiro da tre adesso. È una serie rischiosa. Naturalmente non sono al sicuro, anzi non partono favoriti, contro San Antonio nella eventuale semifinale di conference, una serie che opporrebbe una squadra tradizionale nella sua capacità di rigenerarsi ad una allenata da un coach costantemente in fuga solitaria.
E qui è giusto parlare di difesa perché se è vero che i Suns di D'Antoni difendevano meglio di come erano percepiti (avevano comunque una difesa da metà classifica), la differenza con i Warriors è proprio questa. Golden State gioca seguendo molti degli stessi principi di Houston (con giocatori di talento più ampio) in attacco ma poi ha anche la seconda difesa della Lega. I Rockets non hanno Kevin Durant  (motivato è difensore di altissimo livello) e Draymond Green  (il migliore di tutti?). Il loro miglior difensore è Patrick Beverley. Trevor Ariza è un buon difensore. Ma i Rockets come squadra non hanno la solidità difensiva per surrogare l'attacco qualunque serata esso viva.
Ma tutto questo oggi non conta. Oggi è giusto ricordare che il basket di D'Antoni discusso a Milano, Treviso, Phoenix, osteggiato a Denver, New York e Los Angeles, non solo funziona ma è al momento il basket di riferimento. Mike cerca di vincere perché è un agonista ma il suo posto nella storia del gioco è cementato comunque.

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