In giorni Olimpici, The Undefeated, il bellissimo sito
vicino a tematiche sociali vicine al mondo afroamericano, uno spinoff di ESPN,
ha pubblicato una bellissima intervista a Spencer Haywood centrata sulla sua
storia personale e la sua partecipazione alle Olimpiadi di Città del Messico
nel 1968. La storia di Haywood è struggente: cresciuto nel Mississippi rurale
fino a 15 anni la sua unica occupazione era raccogliere cotone. Non c’era più
la schiavitù ma lui non si è mai sentito nulla di più che uno schiavo a quei
tempi. Quando il clima a casa diventò pesante e il giovane Spencer conobbe
anche la prigione, la madre lo spedì a Detroit dove imparò a leggere e scrivere
meglio, dove la sua carriera di giocatore ebbe un’accelerazione. Nel 1968, anno
della contestazione, molti afroamericani rinunciarono alle Olimpiadi di
protesta. Tra questi anche Kareem Abdul-Jabbar. La squadra di basket rimase
decapitata per tanti motivi. Haywood ne diventò l’inattesa star, il
capocannoniere, l’uomo della medaglia d’oro. Quando tornò a casa temeva una
cattiva accoglienza da parte della gente di colore perché non aveva realizzato
il significato sociale della partecipazione ai Giochi di un afroamericano. I
velocisti Tommy Smith e John Carlos alzarono il pugno guantato di nero sul
podio disattendendo perfino le raccomandazioni di Jesse Owens, reclutato per
calmare gli animi. Haywood temeva una contestazione invece fu abbracciato come
un eroe. In seguito, si rivolse al tribunale per ottenere di passare al
professionismo in anticipo. Fu lui a cambiare la regola che impediva di andare
nella NBA prima di quattro anni dal “debutto” al college. Per questo vorrebbe
si chiamasse “Haywood Rule”. Gli diedero ragione perché era povero in canna e
andare nella NBA gli serviva per sopravvivere. Giocò a Denver nella ABA, diventò
una star conclamata a Seattle, poi a New York anche se in una edizione dei
Knicks inferiore alle sue possibilità in cui doveva dividersi gli spazi con Bob
McAdoo. Lo cedettero ai Jazz. A fine carriera avrebbe avuto 20.3 punti di
media. Era una stella vera. E giocò in Italia, a Venezia.
Di questo nell’intervista non si fa menzione, né si arrivano
a chiarire i giorni della Finale NBA del 1980 quando Haywood era l’ala forte
dei Los Angeles Lakers. A quei tempi la NBA era schiava della droga. Circolava
un po’ dappertutto. Era un problema serio: la Lega era percepita dall’America
come troppo nera e troppo infestata di droga. Un programma antidroga serio e
vincente, educativo, venne approvato solo qualche anno dopo, successivamente
all’arrivo sulla plancia di comando di David Stern. Ma per tutti gli anni ’80,
l’abuso di droghe fu un problema che colpì in modo eclatante tanti giocatori
del primo livello. Sugar Ray Richardson, Mitchell Wiggins (il padre di Andrew
Wiggins di Minnesota), Lewis Lloyd, John Lucas, David Thompson per citarne
alcuni. Non tutte queste storie hanno avuto un lieto fine. Haywood fu uno dei
casi più antichi e clamorosi.
Giocava nei Lakers che stavano per inaugurare l’era dello
Showtime. Era l’ala forte atletica, offensiva, veloce perfetta per loro. Ma era
anche all’apice della sua problematiche esistenziali. Una mattina andò all’allenamento
completamente fatto, reduce da un party a base di cocaina durato un numero imprecisato di ore. Si addormentò quattro volte nel tragitto verso il Forum di
Inglewood. Miracolosamente arrivò illeso. Ma durante lo stretching si
addormentò ancora. Non finì l’allenamento. Un’ora dopo venne tagliato. Non c’erano
le sospensioni all’epoca. Ma Haywood era considerato merce danneggiata. Per
questo l’anno dopo venne a Venezia.
La Reyer era in A2 ma aveva grandi ambizioni, un progetto
importante. Il presidente era Roberto Carrain. Lo sponsor era Carrera. La squadra
con la A2, anche l’ottima A2 di quei tempi, non c’entrava nulla. Aveva Lorenzo
Carraro, argento olimpico a Mosca 1980, aveva Ciccio Della Fiori, ex stella di
Cantù, Nane Grattoni, Ezio Serafini e il primo dei due stranieri era il grande
Drazen Dalipagic. Haywood fu un colpo incredibile. Il coach era Tonino Zorzi. Venezia
vinse facilmente la A2 e giocò anche la finale di Coppa Korac perdendola in
modo rocambolesco e sfortunato a Badalona. Ma Dalipagic e Haywood legarono
poco. Ricordo una gara in tv, all’Arsenale di Venezia. Haywood in taglio verso
il canestro, solissimo. Dalipagic con la palla in mano. Un palleggio. Haywood
era libero. Un altro palleggio. Haywood era libero e chiamava la palla. Un
ulteriore palleggio. Haywood adesso stava urlando. Dalipagic indugiò un altro
istante e infine gli passò la palla, abbastanza in ritardo da obbligare gli
arbitri a fischiare l’infrazione di tre secondi. Haywood non la prese bene.
Era una star, circolavano le sue foto sul Canal Grande a
passeggio con la moglie modella, che poi avrebbe sposato anche David Bowie. Si
chiamava Imam. Frequentava l’Harry’s Bar. A sorpresa, restò a Venezia anche per
la stagione successiva. Dalipagic andò via, al suo fianco un altro grande nome,
Sidney Wicks che però era già in declino e fece male. Haywood giocò cinque
partite strepitose, a 30 di media, sbagliava pochissimo e giocava a livelli
spaziali, nettamente meglio rispetto all’anno prima.
Ma una sera scomparve. E riapparì chissà come nella NBA con
la maglia dei Washington Bullets. Urlarono, gridarono allo scandalo. A quei
tempi si poteva fare. Si poteva lasciare una squadra europea e andare direttamente
nella NBA. Lo fecero altri. Il caso più clamoroso riguardò Earl Cureton a
Milano. Ma lo fece anche Larry Kristkowiak a Firenze. Lo fece Vincent Askew
alla Fortitudo. E altri ancora. In seguito cambiarono le regole. Ora Haywood
non potrebbe andarsene indisturbato. Segnò 13.3 punti di media a Washington.
Restò la stagione seguente ma si ritirò dopo 38 gare. Aveva solo 33 anni.
La sua è una storia a lieto fine perché Haywood in seguito
ha messo comunque ordine nella propria vita, si è disintossicato e ha smesso di
usare droghe, un’abitudine diventata schiavitù nel 1975 quando giocava a New
York, la NBA l’ha tenuto nei suoi confini e anche il suo nome è stato
riabilitato.
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