Quando tramite i Sonics
venne scelto dai Bulls, Scottie Pippen volle che nel contratto fosse inserita
una clausola che gli assicurasse tutti i soldi pattuiti anche qualora fosse
stato tagliato. Si fosse accontentato di un contratto breve, avrebbe guadagnato
di più allora e rinegoziato più tardi a ben altre cifre. Ma Scottie voleva
mettersi a posto finanziariamente per il resto della sua vita. Voleva certezze
e le voleva subito. Così firmò per sei anni a 5.1 milioni di dollari. Fu un
errore perché da quel contratto (poi rinegoziato) non è mai uscito veramente
fino alla parte conclusiva della carriera, fino a quando si trasferì a Houston
nel 1999 e poi a Portland. Ma a quei tempi Scottie aveva bisogno di mandare soldi
a casa, di curare il padre gravemente malato, portare tutta la famiglia in un
posto migliore. Aveva bisogno di non sentirsi più a rischio. Si domandava
sempre che cosa sarebbe successo ai suoi se si fosse infortunato gravemente
com’era successo a Ronnie o semplicemente se tutti avessero capito che non era
davvero un giocatore NBA.
Pippen non aveva ricevuto
alcuna offerta di borsa di studio. Il suo coach chiamò la vicina Central
Arkansas scongiurando l’allora assistente Arch Jones di dargli una possibilità.
Tutto quello che voleva era andare a scuola, laurearsi e magari trovare un buon
lavoro. Non pensava alla NBA, non esisteva.
Central Arkansas si offrì
di mantenergli di studi se avesse fatto il team manager della squadra.
Significava correre ad asciugare il sudore se un giocatore fosse scivolato in
allenamento, portare le borse, raccogliere le maglie bagnate dei giocatori veri
e qualche volta lavarle addirittura. Infine, un paio di giocatori si
infortunarono e Scottie andò direttamente in campo, a fare numero. La statura
intanto aumentava. Il fisico si irrobustiva. Il talento grezzo, invisibile, che
aveva dentro cominciò a esplodere. Diventò un membro della squadra. Nel giro di
due anni ne era il miglior giocatore. Jerry Krause fu l’unico a mandare un proprio
uomo, Billy McKinney, a Central Arkansas. Il resto è storia. “Per Scottie,
arrivare a Chicago fu una specie di trauma culturale – racconta Jimmy Sexton,
l’agente – Veniva dall’Arkansas rurale, da un minuscolo college in cui tutte le
trasferte venivano fatte in pullman. Quelle con i Bulls furono le sue prime
trasferte in aereo”.
Con il suo primo
ingaggio, Scottie intendeva comprare una nuova casa alla famiglia ma la mamma
alzò la bandiera dell’orgoglio, rifiutò di traslocare. Così Scottie acquistò
tutta la terra che circondava la sua casa e vi costruì altre abitazioni per
tutti i membri della famiglia creando una specie di quartiere privato. L’estate
ogni giorno c’era una partita di basket, di baseball, un barbecue.
Quando arrivò
completamente inesperto a Chicago impiegò un attimo a bruciarsi. Per la prima
volta nella sua vita aveva molti soldi in tasca e tutti si stendevano ai suoi
piedi. Era un rookie dei Chicago Bulls! Lui e Horace Grant passavano da un
locale all’altro di Rush Street. Si sposò subito ma il matrimonio, dal quale
nacque un figlio, durò pochi mesi. Negli anni, mentre il suo valore aumentava,
si staccò sempre di più da Grant per somigliare sempre più a Jordan. Lui,
Jordan, era il suo punto di arrivo, il suo obiettivo anche se come giocatore era
diverso. Phil Jackson l’aveva capito e spesso chiedeva a lui di prendere una
decisione per tutti sapendo che il suo altruismo sarebbe emerso. Quando vinsero
il terzo titolo a Phoenix, sull’ultimo possesso, Jackson diede a Scottie il
pallone perché sapeva che se l’avesse dato a Jordan, sarebbe stato lui a
tirare, in qualsiasi circostanza. Pippen invece passò la palla a Grant in
posizione di post basso, il passaggio chiave, l’hockey assist, dal quale nacque
il suggerimento per Paxson e quindi la bomba della vittoria.
I diciotto mesi senza
Michael Jordan furono i più difficili per Pippen. Fu nominato MVP dell’All-Star
Game ma dimostrò quello che molti sospettavano ovvero che fosse un magnifico
secondo violino, non il giocatore che trascina tutti gli altri, la stella
assoluta, che sopporta la pressione dei media, dei tifosi, degli avversari, le
aspettative dei compagni. Giocando senza Jordan, aveva avuto modo di
completarsi, migliorare e ad apprezzare di più il compagno. Così quando Jordan
fece il proprio rientro, il rapporto risultò solido, a prova di bomba, basato
sul rispetto reciproco. Ma prima era successo di tutto: lo trovarono con una
pistola non registrata in macchina; lanciò una sedia in campo per protestare
contro una decisione arbitrale; si rifiutò di entrare in campo in una partita
di playoffs contro New York perché l’ultimo tiro era stato deciso che dovesse
prenderlo Toni Kukoc. Poi è tornato Jordan ad attirare le pressioni e Pippen si
è calmato, oltre a vincere un secondo oro olimpico ad Atlanta nel 1996....
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