Dopo l’eliminazione da
parte di Detroit in sette partite nel 1990, il livello di frustrazione di
Michael Jordan toccò il punto più alto (o più basso, dipende dai punti di
vista) della sua prima carriera, quella senza vittorie. Nel parcheggio del
Palace, quella notte triste, incontrò Jack McCloskey, general manager dei
Pistons, e quasi in lacrime gli domandò se secondo lui avrebbe mai vinto un
titolo. McCloskey era stato il costruttore dei Pistons, ma sapeva che i Bulls
stavano arrivando. Li aveva visti crescere e farsi ogni anno più minacciosi.
“Il tuo momento sta per arrivare – rispose – E prima di quanto pensi”. Fu buon
profeta. I Bulls persero gara 7 nel 1990 ma era il loro primo anno con Phil
Jackson capoallenatore, il primo anno in cui la squadra impiegò il famoso
“Triple Post Offense” o attacco triangolo, ideato o meglio sarebbe dire
elaborato dal vecchio assistente Tex Winter anni prima, quando allenava Kansas
State.
Winter era stato assunto
dai Bulls all’arrivo di Jerry Krause, suo buon amico, che lo considerava,
giustamente, una specie di genio del basket. Il suo rapporto con Coach Doug
Collins però non decollò mai in gran parte per il rifiuto da parte del coach di
impiegare l’elaborato attacco proposto dal suo anziano assistente. Ma quando
Phil Jackson fu promosso, il Triangolo diventò immediatamente l’attacco dei
Bulls. Jackson voleva un basket collettivo, non totalmente dipendente da Michael
Jordan, voleva il “Triple Post Offense”, un sistema in cui i giocatori si
dispongono in modo tale da costruire sul lato del campo in cui c’è la palla
(lato forte) un triangolo. Il giocatore con il pallone è sempre in grado di
tirare, passare la palla ad un compagno collocato su un altro vertice del
triangolo o palleggiare. E’ un attacco basato sul movimento, sul riempimento dei
vertici dell’ipotetico triangolo, sulla circolazione della palla. Non è un
attacco per solisti né un attacco statico. Il problema è che i movimenti sono
dettati dagli stessi giocatori o dalla reazione della difesa, non è un attacco
rigido, programmato, schematico. Il che significa che è necessario del tempo
perché tutti i meccanismi vadano a posto e che servono giocatori particolari,
molto duttili e e intelligenti, per applicarlo. Krause negli anni si sarebbe
dimostrato eccezionale nel trovare le pedine giuste.
In teoria, il Triangolo
avrebbe dovuto ridurre le possibilità realizzative di Jordan, per distribuire
compiti e responsabilità. Non a caso per almeno un anno e mezzo fu difficile
farlo digerire a Michael: lo aveva etichettato come “l’attacco delle pari
opportunità”. Ma con il tempo, la qualità dell’esecuzione del Triangolo andò
migliorando e Jordan imparò ad apprezzare il sistema. E’ probabile che la
rifinitura del gioco abbia prodotto risultati conclusivi diversi da quelli che
si aspettavano gli stessi Jackson e Winter. Phil pensò che Jordan avrebbe dovuto
rinunciare a vincere la classifica dei marcatori per vincere il titolo NBA. In
verità Michael riuscì a giocare dentro il triangolo senza sacrificare il
proprio enorme talento, così i risultati sono stati addirittura superiori al
preventivato. Soprattutto all’inizio, nei possessi di palla finali, accadeva
che Jordan prendesse la partita in mano ignorando il Triangolo e i compagni.
Altre volte fu udito chiedersi a voce alta, magari dopo una sconfitta, cosa
avesse mai vinto Tex Winter con il suo maledetto Triangolo. Ma anche Jordan si
era reso conto che la squadra che i Bulls stavano costruendo era forte
tecnicamente e atleticamente.
Dopo aver perso gara 7
contro i Pistons nel 1990 piuttosto si era domandato se fosse anche forte
mentalmente. Impiegò un po’ di tempo per dimenticare l’emicrania di Scottie
Pippen, la sua terribile prestazione, il fatto che ci vedesse doppio e fosse
stato sul punto di non giocare la partita più importante dell’anno (quando
chiesero a Scottie se se la sentisse, fu Jordan a intervenire e rispondere per
lui, perché Pippen in realtà stava per tirarsi indietro).
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