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lunedì 4 luglio 2016

Dentro la sconvolgente scelta di Kevin Durant



Adesso tante frasi pronunciate da Kevin Durant negli ultimi mesi assumono un significato diverso. Aveva detto che si era stancato di arrivare secondo, di essere il numero 2. Aveva anche difeso Kobe Bryant dalla critica che per anni l'aveva maltrattato salvo osannarlo nel momento della debolezza, del ritiro. Quasi anticipasse l'ondata di critiche che lo sta colpendo in queste ore. È tutto molto strano: nel 2010 mentre LeBron James umiliava Cleveland in uno speciale televisivo improvvisato per annunciare la grande fuga verso South Beach, Durant rifirmava silenziosamente con Oklahoma City conquistandosi consensi e accentuando la differenza comportamentale. Kevin Durant a Golden State fa impressione davvero. È una generazione di giocatori differente, che ragiona e pensa diversamente.  Certe scelte oggi dibattute, magari criticate, una volta non facevano neppure parte del mondo reale. Nessuno ha mai pensato che Magic Johnson potesse andare a Boston e rendere imbattibili i Celtics degli anni '80. O che Michael Jordan non riuscendo a battere i Pistons potesse andare a giocare per loro. Oggi ci sta tutto.

Dicono che se i Thunder avessero vinto gara 6 e poi il titolo, Durant non sarebbe mai andato via. Probabile. Dicono che se Golden State non si fosse suicidata con la complicità di Draymond Green in Finale e avesse vinto il titolo, Durant non sarebbe mai andato ai Warriors. Forse na non è detto. Qual è la differenza? I Warriors hanno già vinto un titolo e stabilito il record di vittorie in una stagione. Sarebbero stati i favoriti anche senza Durant. Il suo arrivo è un colpo di scena. Ma non può essere decisivo.
Se non puoi batterli unisciti a loro. Ma il punto è proprio questo. Davvero i Thunder non potevano battere i Warriors? In fondo l'hanno quasi fatto un mese fa. Perché rinunciare? Questo Durant non l'ha spiegato nel suo articolo su Players Tribune. Può essere ci fosse qualcosa che non può o non vuole dire. Fiducia nel club, sfiducia nei compagni o magari il dubbio che tra un anno possa andarsene Russell Westbrook. Peraltro lui stesso avrebbe potuto impegnarsi per un solo anno come ha fatto con i Warriors che tra dodici mesi dovranno accontentare anche Stephen Curry.
Persino il caso LeBron, citato tantissimo in queste ore, è differente. Lui andò a Miami che l'anno prima non aveva fatto i playoffs. Non fu una scelta forte perché si portò dietro Chris Bosh e sapeva di unirsi a Dwyane Wade ma con loro costruì una grande edizione dei Miami Heat. Qui Durant si è unito ad una squadra già fortissima ovviamente con i suoi giocatori chiave al top della carriera. Non ricordo casi simili. Qui siamo di fronte ad un Jordan che va a Detroit prima di vincere a Chicago, a Bird che rende imbattibili i Lakers, a Kobe Bryant che va a San Antonio. Eravamo abituati diversamente, eravamo abituati ad alphadog che sfidavano gli altri alphadog fino all'estrema conseguenza di non batterli mai. Eravamo abituati a Patrick Ewing e Charles Barkley, a Karl Malone e John Stockton, a Reggie Miller e David Robinson, fedeli alla loro squadra ma soprattutto al loro status almeno fino a quando le condizioni fisiche e l'età non li forzavano ad andare a caccia di un titolo da comprimario  (Robinson ne ha vinti due grazie all'arrivo nella sua squadra di Tim Duncan). Il caso più simile forse è Clyde Drexler, uomo franchigia a Portland che lascia i Blazers nel 1995 per unirsi ai campioni in carica di Houston con i quali avrebbe vinto il suo titolo. Ma Drexler fu scambiato e soprattutto giocava per una squadra declinante.
È estremamente raro che un giocatore del livello di Durant abbandoni una squadra così vicina al titolo e con un core group così futuribile. Lo fece O'Neal nel 1996 ma andò a giocare ai Lakers perché Orlando gli stava stretta e comunque andò in una squadra che cercava in lui la scorciatoia per vincere un titolo che sarebbe stato distante quattro anni. Durant invece si è unito ai più forti. È strano, inusuale e senza precedenti.
C'è un vuoto di sceneggiatura che può anche avere a che fare con il desiderio di misurarsi in un mercato più significativo sfuggendo alla bolla d'aria che è Oklahoma City. Di sicuro le vittorie cancelleranno tutto. Dopodiche questo squadrone sulla carta imbattibile - anche se dovranno spolparlo un po' ma i gregari si trovano - dovrà vincere sul campo. Nulla nella NBA è mai facile. Miami ha fatto quattro finali con LeBron ma due le ha perse. Certo, difficile pensare come si possa difendere dignitosamente contro due dei migliori conque trepuntisti di sempre più un tiratore-scorer di sette piedi come Durant.
Oklahoma City si trova a vivere la situazione degli Orlando Magic nel 1996 quando persero Shaquille O'Neal ma avevano Penny Hardaway che valeva il Westbrook odierno. Tutti gli occhi ora sono su Russell Westbrook: una squadra con lui padrone assoluto, Victor Oladipo, Anthony Roberson, Domantas Sabonis, Enes Kanter e Steven Adams è ancora molto giovane, futuribile e competitiva nei limiti del ragionevole. Due anni fa Westbrook non riuscì, senza Durant in pratica, a portare i Thunder ai playoffs, ma il resto del gruppo è maturato. Adams vale i migliori centri della Lega, Roberson non è solo uno specialista e Oladipo è un potenziale All-Star, come Kanter almeno in attacco. Poi ci sono decisioni da prendere su Dion Waiters e sui soldi che adesso ci sono ma non ci sono i giocatori per cui spenderli. Molto dipenderà dal grado di interesse da parte di Westbrook a sostituire Durant come uomo-franchigia. Non fosse ricettivo potrebbe essere vceduto da qui a febbraio per una ricostruzione totale e dolorosa.

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